UNA GUERRA ILLEGITTIMA

di Michele DI SCHIENA      

 

Disattendendo i moniti e gli appelli della stragrande maggioranza dell’opinione pubblica mondiale, della comunità internazionale e di alte cattedre morali e religiose, il Governo degli Stati Uniti ha dunque scatenato senza l’avallo dell’ONU la guerra contro l’Iraq, dichiaratamente per abbattere il regime di Saddam Hussein (l’ultima delle mutevoli motivazioni), ma in realtà con l’intento di affermare una pretesa imperiale che, per sfoggio di arroganza e difetto di pudore, rischia di far tornare l’umanità ai tempi più bui della sua vicenda ed a provocare in ogni parte del pianeta una marea montante di indignazione e di protesta. Il faticoso cammino della civiltà è stato il frutto della progressiva affermazione, sia pure segnata da stagnazioni ed involuzioni, del diritto sull’arbitrio, della ragione sulla forza, della solidarietà sull’egoismo, dello spirito di tolleranza sulla volontà di dominio. Si è trattato di un processo lento ma inarrestabile e chi, come Bush ed i suoi “compagni di merenda” nella tragica avventura irachena, crede di poterlo bloccare e ricacciare indietro, è destinato alla sconfitta per una condanna senza appello da parte del tribunale della storia che coprirà di esecrazione e di ignominia i cinici canti di vittoria per uno scontato successo militare.

Una guerra, quella di Bush, palesemente illegittima sul piano del diritto internazionale perché in contrasto con la Carta delle Nazioni Unite che vieta agli Stati di ricorrere alla violenza bellica, salvo il caso di legittima difesa, ed attribuisce al Consiglio di Sicurezza ogni potere per il mantenimento dell’ordine e della pace e, in particolare, per l’uso della forza con obiettivi di polizia internazionale. Ed invero per l’art. 42 della Carta solo il Consiglio di Sicurezza “può intraprendere, con forze aeree, navali o terrestri ogni azione che sia necessaria per mantenere o ristabilire la pace”. La risoluzione poi con la quale il Consiglio di Sicurezza decide l’uso della forza comporta sempre una diretta assunzione di responsabilità nella gestione delle operazioni militari da parte dell’ONU che si avvale di contingenti armati appartenenti a stati nazionali ma deve porli sotto un comando internazionale facente capo allo stesso Consiglio di Sicurezza. Né si può invocare, per giustificare la guerra contro l’Iraq, il ricorso alla legittima difesa da parte degli Stati Uniti perché se è vero che la Carta dell’ONU riconosce all’art. 51 il diritto naturale di autotutela individuale e collettiva, è altrettanto certo che sottopone l’esercizio di tale diritto alla precisa condizione che sia in atto “un attacco armato contro un membro delle Nazioni Unite” e riconosce comunque questo esercizio per un tempo limitato e circoscritto: “fintantoché – dice testualmente il citato art. 51 – il Consiglio di Sicurezza non abbia preso le misure necessarie per mantenere la pace e la sicurezza”.

Ed allora appaiono inconsistenti e penosi i tentativi del Governo Berlusconi di dare qualche patente di legittimità alla guerra “preventiva” ed unilaterale di Bush così come risulta costituzionalmente illegittima la scelta dello stesso governo di concedere agli Stati Uniti per le operazioni di guerra, invocando gli obblighi rivenienti dal Patto Atlantico o da altri accordi, supporti logistici, basi militari e uso dello spazio aereo sul territorio nazionale. Consentire l’utilizzo di basi e di strutture significa in realtà coinvolgere direttamente il Paese nella guerra perché la partecipazione ad un conflitto bellico, come a qualunque altra impresa privata o pubblica, non si realizza solo nel momento attuativo ma anche in quello della preparazione e della prestazione di contributi collaborativi di qualsiasi genere. Operatore di guerra non è perciò solo lo Stato che bombarda o manda le sue truppe a combattere ma anche quello che concorda, favorisce o supporta le iniziative e le attività militari. E ciò perché, come la cultura giuridica insegna e suggerisce il comune buon senso, le azioni dei partecipanti ad una qualsiasi operazione o impresa si integrano a vicenda e costituiscono, pur nella diversità dei ruoli svolti dai loro autori, un complesso unitario da tutti voluto e da tutti in qualche modo attuato e, perciò, interamente ascrivibile, specialmente sul piano etico e politico, ad una comune ed inscindibile responsabilità. L’Italia è perciò nei fatti una “nazione belligerante”.

Quanto infine ai pretesi doveri derivanti dal Patto Atlantico, è appena il caso di rilevare che anche esso, disciplinando un alleanza di difesa, non legittima in alcun modo il ricorso a guerre “preventive”. Ma c’è dell’altro e cioè che l’Alleanza Atlantica, la quale è sorta e continua ad essere un’alleanza regionale di stati, non può intraprendere, salvo anche qui il caso di legittima difesa, iniziative di guerra senza il consenso delle Nazioni Unite dal momento che l’art. 53 della Carta stabilisce che “nessuna azione coercitiva potrà venire intrapresa in base ad accordi regionali senza l’autorizzazione del Consiglio di Sicurezza”.

Nei giorni scorsi il Presidente della Repubblica ha detto che in questa tragica vicenda punti essenziali di riferimento per il nostro Paese devono essere la Costituzione repubblicana e le Nazioni Unite. Siamo pienamente d’accordo e perciò sollecitiamo il Capo dello Stato, supremo organo istituzionale di garanzia, ad effettuare richiami ufficiali e a compiere atti appropriati rivolti ad assicurare il rispetto della Carta Costituzionale.

Brindisi, 24 marzo 2003


GUERRA, PROTESTE E LEGALITA’ COSTITUZIONALE

Michele DI SCHIENA    

 

Le manifestazioni non violente di protesta contro la partecipazione dell’Italia alla guerra che si stanno in questi giorni svolgendo sui binari, nei porti, negli aeroporti e sulle strade, sono non soltanto lecite ma anche meritorie per il loro alto valore civile e democratico se riguardate, come sarebbe per tutti doveroso fare, nell’ottica della cultura costituzionale. Esse esprimono infatti un radicale rifiuto della partecipazione del nostro Paese ad atti preparatori della guerra statunitense contro l’Iraq, quali indubbiamente sono il trasporto e lo smistamento sul territorio nazionale di uomini, mezzi, attrezzature ed armamenti con l’utilizzo di strutture e di personale operativo del nostro Paese.

Al di là delle cortine fumogene è dunque chiaro che il governo sta già “facendo” la guerra se è vero come è vero che la partecipazione ad un conflitto bellico, come a qualunque altra impresa, individuale o collettiva, privata o pubblica, non si consuma solo nel momento principale e attuativo ma anche in quelli della progettazione, della preparazione e della prestazione di contributi collaborativi di qualsiasi genere. Operatore di guerra non è perciò solo lo stato che bombarda o manda le sue truppe in prima linea ma anche quello che concorda, favorisce o supporta le iniziative militari. E sì, perché cultura giuridica e comune buon senso impongono di ritenere che le azioni dei compartecipanti perdono la loro individualità e si integrano a vicenda per costituire un complesso unitario, un’unica operazione da tutti voluta e da tutti attuata e, proprio per questo, interamente attribuibile ad una comune ed inscindibile responsabilità.

Il governo Berlusconi sta allora conducendo una guerra illegale nella sostanza perché “preventiva” e perciò vietata dall’art. 11 della Costituzione che “ripudia” il ricorso alle armi per ragioni che non siano rigorosamente difensive ed illegittima sotto il profilo formale perché non deliberata dalle Camere e non dichiarata dal Presidente della Repubblica, come rigorosamente prescrivono gli articoli 78 e 87 dello Statuto. Una guerra quindi in palese violazione di un precetto costituzionale, quello appunto dell’art. 11, netto ed assoluto che non può subire limitazioni interpretative con impropri richiami al principio pacta sunt servanda anche perché nessuno dei patti sottoscritti dal nostro Paese, ed in particolare né quello delle Nazioni Unite né quello Atlantico, sancisce il dovere di partecipare a guerre del tipo di quella ostinatamente voluta da Bush contro la coscienza civile e la sensibilità religiosa di milioni e milioni di uomini. Con la conseguenza che queste organizzazioni internazionali non possono autorizzare l’attacco all’Iraq perché, se lo facessero, si condannerebbero all’estinzione per avere esse stesse stracciato gli statuti da cui traggono vita e legittimazione.

E’ perciò inaccettabile l’opinione di chi, guardando dall’opposizione alla vicenda politica nostrana, ritiene che una “sinistra di governo”, che voglia tornare al più presto alla guida del Paese, si dovrebbe subito dichiarare dalla parte dell’Onu senza riserve o tentennamenti, quali che possano essere le definitive decisioni del Consiglio di Sicurezza. Si tratta di una tesi non solo affetta da un deprimente relativismo etico e politico ma anche del tutto priva proprio di quel realismo di cui sembra menar vanto in quanto spinge il centrosinistra a cercare illusori ancoraggi nello spazio perdente del nulla dove l’Onu si caccerebbe qualora, rinnegando se stessa, autorizzasse la guerra di Bush.

Ma in questa tortuosa vicenda c’è una questione di grande rilievo che va affrontata e chiarita. La deliberazione dello stato di guerra da parte del Parlamento col conferimento al governo dei necessari poteri e la successiva “dichiarazione” da parte del Capo dello Stato sono atti a forma vincolata e “solenne” che hanno la specifica funzione di richiamare l’attenzione dei parlamentari, delle istanze democratiche e dell’intero Paese sulla gravità di una scelta di guerra, sulla sua legittimazione o meno sotto il profilo costituzionale e sulle responsabilità politiche che una tale decisione comporta. Ora, se è vero come è vero che la decisione sulla partecipazione alla guerra spetta alla responsabilità del Parlamento, è anche certo che la “dichiarazione” dello stato di guerra da parte del Presidente della Repubblica, supremo organo di garanzia, non ha solo una mera funzione dichiarativa ma anche un indubbio contenuto di controllo sul merito e sulla forma della deliberazione delle Camere. Va perciò ribadito che di fronte ad una scelta di guerra del potere politico, il Capo dello Stato ha nelle sue mani un importante potere: può richiamare l’attenzione del Parlamento e del Governo sull’insuperabile esigenza di rispettare il disposto dell’art. 78 dello Statuto se la deliberazione dovesse mancare o risultare non costituzionalmente corretta nella forma. E, se invece lo fosse nella forma ma si rivelasse nel merito in contrasto con l’art. 11, può, in analogia con quanto è previsto per le leggi, sospendere l’impropria deliberazione inviando un motivato messaggio alle Camere e chiedendo un adeguato approfondimento che tenga conto dei rilievi formulati. E potrebbe inoltre il Capo dello Stato, in caso di conferma della decisone di guerra e di perdurante suo dissenso, rassegnare le dimissioni come atto estremo di fedeltà alla Costituzione repubblicana.

Allora è in questa ottica che vanno riguardate le manifestazioni di blocco sostanzialmente simbolico dei convogli di morte per ribadire che esse sono atti in difesa della Costituzione e quindi democraticamente apprezzabili e giuridicamente legittimi, tanto che contro di essi non sembra si sia potuto finora andare oltre qualche incerta denuncia… per riunioni pubbliche “non preavvisate”. Ma se le cose dovessero cambiare e si tentasse di criminalizzare la protesta popolare con ben più pesanti interventi e denunce, sarebbe allora l’autorità giudiziaria chiamata a fare giustizia anche ricorrendo, ove ritenuto necessario, all’applicazione delle esimenti dell’ “esercizio di un diritto” o dello “stato di necessità”, interpretando le relative norme estensivamente alla luce delle grandi direttive costituzionali, per evitare che la legalità venga usata contro se stessa e che per impulso di un potere che viola la Costituzione vengano ingiustamente puniti coloro che a viso aperto scendono in piazza per difenderla. E questo fanno mentre il governo sta già compiendo atti di guerra illegittimi sotto ogni profilo senza che vengano mossi rilievi da parte delle alte magistrature dello Stato deputate a garantire la legalità costituzionale.

Brindisi, 3 marzo 2003

 


 

CONTRO LA GUERRA PER “AMOR DI PATRIA”
E PER “AMOR DI MONDO”

Michele DI SCHIENA

 

“Tutti fatti a sembianza d’un Solo; figli tutti d’un solo riscatto; in qual ora, in qual parte del suolo trascorriamo quest’aura vital, siam fratelli; siam stretti ad un patto: maledetto colui che l’infrange, che s’innalza sul fiacco che piange, che contrista uno spirto immortal!”. Questo ispirato e duro monito manzoniano, colto nel suo significato più autentico ed universale oltre il contesto poetico in cui nasce, esprime il senso, la profezia e la tensione morale delle grandi manifestazioni di protesta contro la guerra in Iraq svoltesi contemporaneamente il 15 febbraio nelle strade e nelle piazze di oltre seicento città del mondo. Si è trattato di una mobilitazione senza precedenti nella storia della coscienza civile della umanità, di un atto corale di presenza democratica del popolo della pace e della speranza che si “globalizza” per opporsi alla violenza delle armi, al razzismo, alla miseria e a tutte le forme di discriminazione e di esclusione.

In collegamento ideale con l’appello finale del Terzo Forum Sociale mondiale di Porto Alegre del gennaio scorso, moltitudini di giovani e di meno giovani hanno gridato il loro “no” alla guerra che tragicamente mette a nudo i vincoli strutturali che legano la globalizzazione neo-liberista al militarismo quale strumento di una volontà di dominio che vuole abbattere tutto ciò che la ostacola per assolutizzare i suoi interessi, per estendere i confini dell’ “impero”, per controllare i popoli e disporre a piacimento di tutte le risorse strategiche della terra, a partire dal petrolio mediorientale. E queste immense folle di manifestanti si sono in positivo pronunciate per la pace, per la cooperazione internazionale e per politiche che assicurino a tutti gli uomini il godimento dei diritti essenziali ed universali al cibo, all’acqua, al lavoro, alla salute, all’istruzione, ad una corretta informazione e ad una vita libera e dignitosa.

A Roma, dove il “ripudio” costituzionale della guerra si è fatto cuore e voce di tre milioni di persone, ha avuto luogo uno degli eventi più significativi dell’intera storia repubblicana del nostro paese: l’Italia, che con questo governo si sta malinconicamente presentando per via diplomatica sullo scenario internazionale come una delle più servili ed insignificanti ancelle del presidente Bush, si è in quanto paese “reale” confermata per forza di popolo al cospetto dell’opinione pubblica mondiale come una “grande potenza di pace”. A Roma il potere, chiuso tra mille contraddizioni nei suoi “palazzi” ed afflitto dalla mercantile preoccupazione di avere forse sbagliato certi calcoli in termini di proprio tornaconto, tenta penosamente di conciliare l’inconciliabile per restare comunque legato e fedele al “grande fratello” americano mentre il paese, con le sue diverse sensibilità e culture, si riconosce a stragrande maggioranza nella domanda di pace e di giustizia che sale, semplice e vigorosa, dai tanti cittadini delle “cento città” confluiti nella capitale per “amor di patria” e “per amor di mondo”.

E sì, il nostro paese vuole essere una “grande potenza di pace” perché siamo stati culla del diritto e potremmo oggi essere i suoi fautori nei difficili rapporti internazionali di questa complicata stagione politica, perché abbiamo un patrimonio culturale che può dare un contributo estremamente positivo al progresso civile dell’umanità e perché disponiamo di forti energie, religiose e civili, maturate in una terra che accoglie la Cattedra di Pietro e che è stata teatro di grandi e significative lotte di liberazione e di emancipazione sociale. La manifestazione di Roma ha detto con forza anche questo e sarebbe un tragico errore far finta di nulla per partecipare ufficialmente o ipocritamente alla chetichella, con supporti logistici e di vario genere, ad una guerra di aggressione vietata dalla nostra Costituzione e dal diritto internazionale.

Brindisi, 15 febbraio 2003 

 

:: Osservatorio  di Michele Di Schiena
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Una guerra illegittima
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I "perché" di una guerra