IL VERTICE DELLA FAO
LA FAO E LE BARZELLETTE DI BERLUSCONI

In "questo mondo", come oramai tutti sappiamo, il venti per cento degli abitanti del pianeta dispone dell'ottanta per cento della ricchezza mentre del rimanente venti per cento si devono accontentare gli altri quattro quinti dell'umanità; 850 milioni di uomini non hanno da mangiare ed ogni quattro secondi uno di essi muore per una strage che miete quindi più di ventunomila vittime al giorno; il settantacinque per cento degli africani non ha l'acqua potabile e 13 milioni di essi rischiano di essere uccisi da una carestia di gravità e di dimensioni inimmaginabili; molti milioni dei tre miliardi di contadini sono esposti al pericolo di essere espulsi dal lavoro dei campi e di perdere così la loro misera fonte di guadagno se l'agricoltura sarà sottoposta a processi di sviluppo industriale secondo criteri dettati esclusivamente dalla razionalità del mercato e della competizione.

Ed ancora: 4 miliardi di uomini dei 6 viventi sul pianeta sono esclusi dai livelli minimi di benessere raggiunti nella ristretta area dell'Occidente industrializzato; in Europa e nel Nord America si allargano le sacche di miseria e di abbandono mentre cresce in virulenza l'attacco ai diritti sociali; quattro cittadini statunitensi (Bill Gates, Paul Allen, Warenn Buffet e Larry Ellison) hanno nelle loro mani una ricchezza pari al prodotto interno lordo di quarantadue paesi poveri con una popolazione complessiva di 600 milioni di uomini; nel continente africano l'Aids sta uccidendo milioni di uomini in assenza di risposte sanitarie di prevenzione e di cura; in Iraq dopo la guerra del Golfo sono morti 500 mila bambini per mancanza di cibo e di medicine; nell'area dell'ex Unione Sovietica, convertita oggi al capitalismo, l'aspettativa di vita per 4 milioni di persone è scesa a 58 anni.

"E se non piangi, di che pianger suoli?": questo il drammatico interpello di dantesca memoria che alle nostre coscienze pone tale terribile scenario di disperazione e di morte chiedendoci di convertire senza indugio lo sgomento ed il pianto in un pentimento operoso capace di imprimere una svolta al nostro modo di pensare, di vivere e di agire socialmente e politicamente. Ed invece a Roma molti leaders di governo del ricco Occidente hanno disertato fisicamente il vertice della Fao ma non hanno mancato di farsi ad esso politicamente presenti per condizionarne lo svolgimento e gli esiti. E questi uomini di stato e di governo non hanno pianto ed anzi alcuni di essi, personalmente o attraverso i loro rappresentanti, hanno sorriso quando il nostro Presidente del Consiglio, fra scherzi e battute, annunciava pranzi e raccontava una barzelletta sulle scuse che, dopo la caduta del muro di Berlino, il vecchio Marx avrebbe chiesto in tre secondi ai proletari di tutto il mondo. Scuse che, secondo la logica berlusconiana, avrebbe probabilmente dovuto chiedere, in ben altra dimensione, anche un antico "palestinese" che si diceva figlio di Dio ed andava predicando, sembrerebbe con poco ascolto, la fratellanza universale e la liberazione dei poveri e degli oppressi: un "palestinese" che era stato mite e comprensivo con tutti tranne che con gli ipocriti e con quanti volevano fare "mercato" sempre e dovunque, persino nel tempio.

Ma andiamo al centro del problema: la Fao ha dovuto registrare a Roma un ennesimo fallimento nonostante le tante buone volontà che si muovono al suo interno ed i tanti buoni propositi, diluiti purtroppo, questi ultimi, in un fiume di parole rituali e generiche raccolte in un documento "finale" varato incredibilmente all'inizio dei lavori del Summit e privo di qualsiasi valore vincolante per i governi e per gli organismi internazionali. Un fallimento che è la conseguenza di un vizio genetico del progetto (se così lo si può generosamente chiamare) di lotta alla povertà ed alla fame che segnano di lutto larga parte del pianeta. Si tratta invero di un difetto strutturale che è possibile agevolmente individuare nella scelta, imposta alla Fao dalle classi dirigenti dei Paesi occidentali, di concepire ogni itinerario di ricerca ed ogni impegno di lavoro e di intervento all'interno della logica di un modello economico di sviluppo che assolutizza le ragioni del mercato e del profitto mortificando quelle della giustizia e della solidarietà.

Un modello, quello imperante, segnato da laceranti contraddizioni e da limiti insuperabili: sul piano della capacità espansiva in Occidente, per la saturazione del mercato dei beni durevoli (macchine, elettrodomestici, televisori, ecc.) con la riduzione della relativa domanda oramai contenuta entro le esigenze di sostituzione dei prodotti; sul piano sociale, per l'impossibilità, dovuta ai loro redditi di fame, dei potenziali nuovi consumatori del terzo mondo di assorbire la produzione; sul piano, infine, della compatibilità ambientale, in un pianeta che morirebbe avvelenato se si motorizzasse anche solo un altro dieci per cento della popolazione mondiale. Ed a ciò va aggiunto, guardando ad un problema decisivo per la lotta alla fame, che l'Occidente, servendosi proprio del vertice romano della Fao, ha operato una disinvolta apertura alle biotecnologie ed ha ribadito la scelta di portare avanti un processo di privatizzazione dell'agricoltura guidato da organismi controllati dalle multinazionali dell'ingegneria genetica.

Ed allora va detto chiaramente che il summit di Roma si è dimostrato "senza anima" e che con le elemosine non si va da nessuna parte, anche quando gli aiuti dovessero raggiungere l'uno per cento del P.I.L. dei paesi ricchi, traguardo peraltro lontano, perché in tale ipotesi assisteremmo pur sempre ad un Occidente che al mondo povero da uno mentre da esso continua a prendere cento. Il vertice della Fao a qualcosa però è servito: a dare voce, ancora una volta, ai "ribelli per amore" di tutte le fedi e di tutte le culture, a coloro cioè che credono nella possibilità di un "altro mondo" e lavorano alla sua costruzione.

Brindisi, 13 giugno 2002

Michele DI SCHIENA