L'uomo, un animale sovversivo di Vittorio Pergola da nonluoghi
 
Lo Stato delle cose ha il monopolio della forza,  del nostro stomaco, dell’aria che respiriamo, dei nostri nervi scoperti, delle droghe di ogni genere, del nostro spostarci nello spazio con qualsiasi mezzo ciò avvenga, della nostra morte futura e in qualche modo dei nostri affetti.
Credo basti a dichiarare un'invadenza non poco pesante.
Invadenza che si fa inevitabile, e anzi, funzionale al tutto, nel mondo del lavoro.
Personaggi di ampie vedute, uomini dall’ampio spettro di azione, possono decidere con un capriccio il nostro futuro senza pena alcuna di verificare il nostro reale valore, o al contrario senza alcuna intenzione di minare la propria concezione di sé.
Quando lo Stato delle cose non piace, procura disagio, prurito e rabbia, lo stesso Stato delle cose elargisce facili ricette semantiche di liquidazione e isolamento del problema:
aggressivi, polemici, troppo deboli,  ipersensibili, emotivamente fragili, nati vinti o, peggio, anarchici (laddove “anarchici” diventa contenitore di significati che vanno dall’illusione infantile di chi coltiva sogni giudicati impossibili alla pericolosa tendenza di chi tende a progetti di sovversione da condannare con disprezzo e autoritaria fermezza) .
Sono solo alcuni degli innumerevoli appellativi profani (perché molti altri se ne potrebbero pescare in quella palude di perversa sacralità che chiamano la scienza ufficiale, sia essa antropologia, psichiatria o altro) atti a descrivere chi percepisce dal profondo le tante storture di uno Stato di cose.
Un epitaffio ideale per molte anime nobili, raramente valorizzate in vita, potrebbe recitare: “era troppo sensibile per questo tempo” o vaccate del genere.
Che tradotto in realtà, molto spesso vuole semplicemente dire:
“ne ha prese di porte in faccia tanto che trasmetteva inquietudine, timore, senso di una precarietà che non si vuole svelata”. 
Le storture del linguaggio fanno sì che sia quasi irriconoscibile l’uomo nel suo essere, perché l’uomo allo stato puro, disintossicato dalle influenze di questa storia che si è fatta scienza, pensiero, mercato e realtà, è un uomo disperato, disperato di una libertà che, oggi, è complesso anche soltanto definire.
Laddove la forza è rispetto, il senso dell'equilibrio tra autoaffermazione, anche collettiva, e autolimitazione, laddove il potere è empatia, voglia di farsi carico.
In uno dei film che preferisco, c’è una scena in cui una prostituta, approfittando dell’evidente stato di ebbrezza del protagonista, sfila via la fede dal suo anulare con un rapido gioco di bocca.
Prostituta, alcolizzato, fede, in quella scena c’è molto più di quel che sembra.
Matrimonio, educazione dei figli, fedeltà,  rapporto con il denaro, con il corpo, gli interrogativi sollevati dall’evoluzione della scienza e della tecnica non sono più diretti da regole facilmente identificabili, con il progressivo sbiadirsi della tradizione , della teologia morale, sono sempre più numerosi gli aspetti della vita che trovano ospitalità nel campo della problematica individuale.
La questione di quel relativismo etico che tanto spaventa la chiesa contemporanea.
L’evoluzione tecnocratica ha generato società complesse e iperorganizzate che agiscono sull’individuo in direzione di una forte deresponsabilizzazione, il concetto ormai noto di quell’“eterodirezione” della folla solitaria di Riesman è tra le chiavi di lettura della realtà più usate e adatte a questi tempi.
Ma abusarne è un rischio troppo facile da correre, creando di fatto un clima di sfiducia nei confronti delle potenzialità del nostro essere uomini, prima ancora che individui.
La sensibilità è una delle caratteristiche dell’essere uomo più esaltata e al contempo castrata, perché pericolosa, fonte di probabile ribellione ad un certo modo di organizzare i processi complessi.
Ho sempre pensato che gran parte del lavoro di progressivo “sputtanamento”, del termine anarchia nascesse proprio dal timore del potenziale in fatto di sensibilità di questo concetto.
Nel passato il mito della crescita e quello della rivoluzione hanno permeato modelli ideologici contrapposti, entrambi questi miti in qualche modo sono stati smentiti.
Uno studioso nord americano nel ’74 ci metteva in guardia sul fatto che “le politiche intese a cambiare la società sono generalmente opera di consorterie di politici e di intellettuali che pretendono di avere una superiore intelligenza della realtà. Questa pretesa è generalmente spuria”,  questo sociologo non era certo un anarchico, ma un uomo che al termine del suo cammino sposò la politica reaganiana, per il classico timor dell’incertezza che sopraggiunge in molti intellettuali alla fine della loro esistenza.
Nei suoi saggi si parlava di “postulato dell’ignoranza” e di altri concetti legati alle decisioni politiche di governi fatti anche e soprattutto da teorie della conoscenza, ricordo ancora qualche frase di Peter Berger, il sociologo della conoscenza della citazione precedente:
“La maggior parte delle decisioni politiche debbono essere prese sulla base di conoscenze insufficienti. Se si comprende questo, si diventa molto guardinghi verso politiche che esigono alti costi umani”.
 Malatesta  a proposito della ragion d’essere di un qualsiasi governo democratico esprimeva così le proprie perplessità : “Perché abdicare nelle mani di alcuni la propria libertà, la propria iniziativa? Perché dar loro questa facoltà di impadronirsi, con o contro la volontà di ciascuno, della forza di tutti e disporne a loro modo? Sono essi tanto eccezionalmente dotati da potersi, con qualche apparenza di ragione, sostituire alla massa e fare gli interessi, tutti gli interessi degli uomini meglio di quello che saprebbero farlo gli interessati? Sono essi infallibili e incorruttibili al punto da poter affidare, con un sembiante di prudenza, la sorte di ciascuno e di tutti alla loro scienza e alla loro bontà?
E quand’anche esistessero degli uomini di una bontà e di un sapere infiniti, quand’anche, per un ipotesi che non si è mai verificata nella storia e che noi crediamo impossibile a verificarsi, il potere governativo fosse devoluto ai più capaci e ai più buoni, aggiungerebbe il possesso del governo qualche cosa alla loro potenza benefica, o piuttosto la paralizzerebbe e la distruggerebbe per la necessità, in cui si trovano gli uomini che sono al governo, di occuparsi di tante cose che non intendono, e soprattutto di sciupare il meglio della loro energia per mantenersi al potere, per contentare gli amici, per tenere freno ai malcontenti e per domare i ribelli?”
I costi umani delle politiche occidentali degli ultimi secoli sono ancora rintracciabili nei manuali di storia e nella memoria dei pensatori più acuti.
 I costi umani dello Stato attuale delle cose sono visibili, nonostante le forti concentrazioni del potere mediatico, a chi trova il tempo e la forza di volerli vedere.
Ogni coscienza che si sia riuscita a sottrarre, non senza le difficoltà che conosciamo a livello di interazioni quotidiane, alle influenze dei mercanti di menzogne, fossero questi preti, docenti universitari o spacciatori dell'etere, non può oggi non interrogarsi sull’uomo e sul sistema democratico così come lo ha conosciuto.
Ciò non sembra comportare necessariamente  richiami alla sovversione o a pericolose forme di ostile ribellione.
Qualunque sistema consideri l’urgenza di prese di coscienza, il bisogno impellente di guardarsi allo specchio senza trucco, qualcosa di pericoloso, è un sistema divenuto troppo debole,  quindi inevitabilmente pericoloso, esso sì.
Era dunque pericolosa la sensibilità del Malatesta?
Lo era e lo doveva essere anche quella dei vari Berger, seppur nella loro non appartenenza a progetti di vita di egual radicalità propositiva.
Eppure in quel particolare testo del ’74 "Le piramidi del sacrificio" (Einaudi, 1981) si perveniva alla conclusione dell’esistenza di  un impellente bisogno di un nuovo metodo per affrontare i problemi di etica politica e di trasformazione sociale, per il quale occorre, si diceva, associare due cose di solito separate: analisi realistica e immaginazione utopistica, il libro si proponeva di fare un primo passo verso un utopismo realistico. Non mi sembra un progetto comunque da poco.
Che l’autore sia stato inghiottito poi in quel timor dell’incertezza sfociato nell’apologia del sistema capitalista che ha contraddistinto gran parte degli anni ’80 non è a mio parere rilevante, ognuno è sovversivo di se stesso.
Resta la testimonianza di una sensibilità che ha denunciato cose che altri denunciavano e denunciano, resta la bellezza della problematicità individuale libera di evolversi o involversi a seconda dei punti vista, ma sempre con l’attenzione sensibile ai costi umani, come punto di partenza per ogni analisi dello Stato delle cose e delle idee.
La grande differenza, a parere di molti, tra il '68 e i movimenti attuali sta nel fatto che in passato si lottava contro qualcosa, oggi più saggiamente, si alza la voce per qualcosa.
Tra Berger e Malatesta, in mezzo a due ideali coordinate di un pensiero, c'è tutto un universo di domande e di risposte, di dubbi e di teorie della conoscenza da creare e ricreare.
Ma per coglierne le potenzialità ci vorrebbe una gestione dello Stato delle cose fatta di uomini, non di individui, con alle spalle delle vere collezioni bibliografiche, non fasulli volumi di un enciclopedia sciatta e strumentale che sembra provenire da una raccolta punti promossa dal supermercato più grande che ci è dato conoscere.
Analisi realistica e immaginazione utopistica, attenzione ai costi umani, presuppongono dunque un humanitas che con o senza Dio, recuperi una sensibilità e una fiducia nell'uomo di fondo.
La libertà di credere nella possibilità di depurare l'individuo e raschiare sotto la coltre di melma fino a vederne apparire l'uomo.
Se lo Stato delle cose considera la possibilità di essere uomini a tutti gli effetti, come cammino sovversivo, allora dovrà rivedere e riscrivere molte pagine della storia del pensiero sociale e filosofico, ma credo abbia perso la preparazione per un opera di tal imponenza.
Ogni cosa può essere sovversiva a se stessa, appunto.