IL COMMENTO
G8, il ministro e gli scontri ecco le risposte
che mancano
di GIUSEPPE
D'AVANZO
LA QUESTIONE
non è se il ministro dell'Interno, Claudio Scajola, debba dimettersi o restare
al Viminale, per il momento. Quello che è accaduto a Genova non può
precipitare subito nella polemica politica fra governo e opposizione. Qui non
sono ancora chiari i fatti e, fin quando non lo saranno, ogni responsabilità
sarà scolorita e troveranno spazio soltanto le
strumentalizzazioni, i pregiudizi, le convenienze di schieramento, mentre altro
sembra in gioco. In gioco sembra esserci il diritto di manifestare la propria
opinione nel rispetto delle forze di polizie e i limiti a cui devono sottostare
polizia e carabinieri nel garantire l'ordine. Dall'altro lato, la fiducia che le
forze dell'ordine devono avere nel rispetto delle regole di convivenza civile da
parte di chi manifesta. E' un problema che non si ferma, purtroppo, a Genova, ma
che potrebbe ripresentarsi nei prossimi mesi se l'Italia dovesse affrontare una
situazione di acuta tensione politica e sociale. Non c'è soltanto la globalizzazione.
L'agenda politica offre un calendario (pensioni, scuola, sanità, relazioni
sindacali) denso di occasioni di confronto e scontro. Il ministro dell'Interno
ha dato la sua ricostruzione dei fatti alla Camera l'altro giorno. E' stata una
ricostruzione superficiale, come un chiacchiericcio fra poliziotti in Questura.
Ben altre sono le risposte che ci aspettavamo alle questioni ancora oscure e che
rendono incomprensibili le giornate del G8 genovese. Qui tenteremo di proporne
qualcuna. Conviene cominciare dalla prevenzione degli episodi di violenza e dal
controllo del gruppo più aggressivo dei Black Bloc. Non è un mistero per
nessuno che, fin dalla primavera, c'era una sola preoccupazione ai piani alti
del Viminale: l'arrivo in Italia delle "tute nere". Questo giornale ne
rendeva conto il 27 maggio, con un articolo dal titolo "La minaccia dei
Black bloc, l'anima nera del movimento".
Ora, è lecito chiedersi perché i Black bloc non siano stati fermati prima che
si mettessero in azione nel corpo vivo del pacifismo in corteo. Ecco la prima
domanda a cui il ministro avrebbe dovuto rispondere. A Quarto, nei pressi di
Genova, davanti all'Ospedale psichiatrico, la Provincia ha a disposizione un
maxicomplesso con uffici, scuola superiore, asilo nido,
due palestre, un teatro, il parco. Quest'area è stata concessa al
"Network", l'ala radicale degli anti G8 che comprende centri sociali -
estranei alle "tute bianche" - e i Cobas. Di questo complesso resta
ben poco: gli uffici sono stati distrutti, i computer
spazzati via e il presidente della Provincia, Marta Vincenzi, conta 4
miliardi di danni. Fin da mercoledì sono stati i Black bloc a occupare l'area a
suon di calci, bastonate e minacce cacciando via tutti gli altri.
Per quattro giorni sono stati padroni assoluti del territorio. Bene, Marta
Vincenzi racconta che fin dalle 11 di sera di giovedì la giunta, gli assessori,
i direttori dei servizi provinciali hanno segnalato quel che stava avvenendo in
Questura e in Prefettura. A scanso di ambiguità, c'è anche una denuncia
scritta. Nessuna perquisizione del luogo è stata ordinata dalla Questura che ha
inviato, soltanto la mattina di sabato 21, una camionetta della polizia.
I poliziotti si sono tenuti ben lontani dall'edificio, accontentandosi di
dare una sbirciatina. È da Quarto che, da molteplici testimonianze raccolte dai
cronisti di Repubblica, alcune centinaia di "tute nere" si sono mosse
verso il centro di Genova giungendo a 200 metri da via XX Settembre,
distruggendo al loro passaggio negozi, banche, auto.
Qualche domanda al ministro. Perché l'edificio di Quarto non è stato
perquisito prima dell'avvio del G8? E perché non è stato perquisito neanche
dopo il primo giorno di violenze? Quante erano davvero le "tute
nere"? Il ministro parla di 5 mila. I testimoni oculari sparsi nella città
indicano invece in non più di 300/500 i violenti, di cui soltanto 100
sistematicamente dediti ad assalti e devastazioni. Seconda domanda. È stato
confermato dall'Arma dei carabinieri che alcuni agenti, sotto copertura, hanno
infiltrato le "tute nere" durante i giorni di Genova. Come è ovvio,
nessuno si scandalizza che questo avvenga nelle particolari circostanze che si
stavano creando. Ma se infiltri un gruppo di violenti è per prevederne le
mosse, localizzarne i luoghi di ricovero, neutralizzare il loro arsenale,
arrestarli o fermarli, prima che possano raggiungere i loro obiettivi.
Nulla di tutto questo è accaduto a Genova. E allora perché infiltrare il
gruppo? Anche questa domanda merita una risposta del ministro dell'Interno, che
non può essere, tuttavia, l'unico destinatario degli interrogativi di questi
giorni.
Se si vuole sfuggire al gorgo di inutili polemiche politiche che lasciano
ognuno nei propri pregiudizi, è doveroso che anche la leadership del Genoa
Social Forum sciolga qualche nodo.
Il Tg5 di domenica alle 20 ha mostrato le immagini di un furgone, parcheggiato
in una strada di Genova, mentre si svolgeva la manifestazione del giorno
precedente. Nel furgone, un ragazzo distribuiva bastoni di legno e mazze
ferrate. Bene, quello stesso furgone era stato parcheggiato, nei giorni
precedenti, in via Ciclamini, dove erano acquartierati i manifestanti dei
Cobas.
In quello stesso campo, sono state sequestrate 62 mazze ferrate, che
erano di giorno in giorno caricate su quel furgone, preso in affitto a Torino da
un anarchico. È possibile che nessuno dei responsabili del "campo"
abbia visto? È legittimo che chi ha visto abbia taciuto, anche quando, nel
corso del tempo, è parso evidente che i più violenti usavano i non
violenti, come schermo per le loro imprese? Noi non lo crediamo.
Nonostante sia lecito ipotizzare che parte del movimento no global abbia
sottovalutato o tollerato o, addirittura, sia stato complice delle imprese
dei gruppi più aggressivi non è lecito, e non può esserlo in un paese
di democrazia evoluta, che le forze dell'ordine si abbandonino in presenza di
questa ipotesi o anche di una certezza, a violenze inutili, vendicative.
Se i silenzi del movimento no global rappresentano una grave responsabilità
politica che rischia di travolgere le ragioni del movimento, le violenze delle
forze dell'ordine costituiscono una pericolosa défaillance istituzionale. A
questo proposito, ci sono per lo meno tre domande a cui il ministro dell'Interno
dovrebbe rispondere.
Perché venerdì 20 luglio per tutta la mattinata le "tute nere"
hanno potuto abbandonarsi ad una distruzione sistematica? Perché carabinieri e
polizia si sono messi in moto, dietro una raffica di lacrimogeni, in via
Tolemaide soltanto nel pomeriggio quando, alle 15, è partito il corteo pacifico
dei non violenti, che procedeva senza che volasse una pietra, un urlo, un
bastone?
Queste risposte, ormai, il ministro dell'Interno e il governo le debbono non
soltanto all'opinione pubblica italiana.
Dal New York Times al Los Angeles Times, dal Financial Times alla tedesca
Bild, dagli inglesi Sunday Times e Guardian, i grandi giornali internazionali
raccontano delle violenze gratuite subite da manifestanti non violenti.
Soprattutto, in due luoghi, che coincidono con i protagonisti. Primo luogo: gli
edifici scolastici Diaz e Pascoli in via Cesare Battisti. In queste due scuole
è intervenuto il Reparto Celere di stanza nella caserma di Bolzaneto. Quel che
è accaduto alla Diaz e alla Pascoli lo abbiamo potuto vedere tutti nei suoi
effetti.
Le immagini televisive ci hanno mostrato sangue sui muri, sui pavimenti, sulle
cose. Abbiamo visto uscire dall'edificio ragazzi con la testa rotta, senza
denti, con le braccia spezzate. Erano responsabili di aver celato macchine
fotografiche, olio abbronzante, tamponi, coltelli da campeggio, e certo anche
due molotov. Ma è legittimo usare violenza contro tutti per punire la
responsabilità di pochi? Ed è legittimo accusare addirittura di associazione
per delinquere tutti coloro che avevano trovato ricovero in quel complesso
scolastico?
Ma quel che è accaduto nelle due scuole non è nulla rispetto a quanto è
successo nella caserma del Reparto Celere di Bolzaneto. Già Le Monde e El
Pais di ieri hanno raccolto le testimonianze degli sventurati che si sono
trovati in quel luogo in stato di fermo. Nelle nostre cronache troverete la
testimonianza di Evandro Fornasier. Il suo racconto obbliga il ministro
dell'Interno ad una risposta. "A turno - racconta Fornasier, come già
Adolfo Sesma e Luis Alberto Lorente a El Pais e
Vincent a Le Monde - entravano militari a usarci violenza: ci sbattevano
la testa contro il muro, ci davano calci sui testicoli, schiaffi, colpi al
torace, gas urticante in faccia e insulti continui: "Comunisti di
merda, froci". Oppure: "Perché non chiamate Bertinotti o Manu
Chao"?".
Signor ministro, chi dirige il Reparto Celere di Bolzaneto? È stata una
iniziativa di questo dirigente il pestaggio sistematico dei fermati? Oppure, a
questo dirigente è stato dato un ordine? E da chi?
Signor ministro, l'idea che non esistono fatti, ma solo interpretazioni non è
solo falsa, ma può diventare pericolosa perché se la democrazia, e le regole
della democrazia, diventano soltanto un punto di vista, alla democrazia conviene
preparare il funerale.
(25 luglio
2001)
http://www.repubblica.it/online/politica/gottoundici/avanzo/avanzo.html